Il “Christus” di F. Liszt: una teologia in musica
È necessario imparare ad ascoltare un brano come fosse un “tu” realmente distinto da sé. È preferibile “comprendere” che “fagocitare” l’arte e il complesso mondo di risonanze spirituali ed emotive che essa è in grado di suscitare. Con questo non si vuole dire che il sentimento “istintivo” valga poco meno di zero, anzi, l’emozione, rettamente indirizzata dalla comprensione dell’opera, è ciò che sta propriamente al centro dell’evento musicale. Tale fatica iniziale è pienamente ripagata dalla profondità delle sensazioni che questo tipo di ascolto, per niente superficiale, è in grado di far emergere. D’altronde ci è possibile sostenere questa posizione esattamente in virtù della concezione estetica di Liszt che, come abbiamo visto, differentemente dalla corrente romantica della musica “pura”, non risolve la religione in sentimento soggettivo.
Teologia come via spirituale, logica e musica
La prima pagina della partitura ci pone subito a contatto con il motivum, cioè, letteralmente, ciò che Liszt ha ritenuto l’abbia “mosso” verso la composizione dell’oratorio. Il motivum riportato è tratto dalla Scrittura, precisamente dalla lettera agli Efesini (4,15) e viene così riportato nel latino della Vulgata:
“Veritatem autem facientes in caritate, crescamus in illo per omnia qui est caput: Christus”
“Crescamus!” Ecco finalmente il contenuto della musica dell’avvenire! Ecco la “forma” del progresso che giustifica l’impegno sociale e artistico. Il senso dell’esortazione è sostenuto dalla qualità teologica della storia della rivelazione, poiché noi abitiamo lo spazio del “già” e del “non ancora”. Ciò significa che la storia, pur avendo già ricevuto la rivelazione definitiva dell’amore di Dio in Cristo e con essa la direzione del suo cammino, non è ancora, per così dire, chiusa. Da questa sovrapposizione e da questa tensione nasce la necessità di esortarsi vicendevolmente a crescere verso “colui che è il capo” e, anche, può acquistare un senso più pieno la decisione di contribuire al progresso di questo cammino spirituale condiviso, con mezzi artistici. Da questo motivum ricaviamo anche l’idea che Cristo non sia compreso come una figura mitica del passato, un sapiente o un maestro di morale bensì, come termine risorto e vivente del progresso e dell’avvenire dell’umanità.
Misericordia e verità sono il luogo in cui questa crescita deve avvenire e ciò ci consente di riflettere sul fatto che “il problema della teologia [ed eventualmente della teologia detta in musica] come possibile via spirituale sembra riconducibile, nel suo fondamento, alla difficile integrazione di verità e misericordia: al riconoscimento cioè dell’Evangelo come rivelazione della carità di Dio, e della carità effusa da Dio nella comunicazione della sua verità. E, nella confessione del volto cristiano di Dio, si riconduce al rapporto tra Spirito e Logos. La teologia può essere logos su Dio solo nello Spirito Santo, senza il quale nessuno può dire che Gesù è il Signore, e così diventa via spirituale, per lo Spirito che si riceve accogliendo con fede la parola.”
Da questa articolazione del rapporto verità – carità è possibile intuire come anche l’integrazione di logica e spiritualità risulti necessaria, anche se difficile, a causa della condizione provvisoria e non chiusa della nostra conoscenza, nell’attesa della rivelazione di Gesù Cristo nella gloria. In un certo senso si tratta di affermare che il dono della carità di Dio abita “già” definitivamente in noi, mentre la verità è nelle condizioni del “non ancora” del regno di Dio. Ogni teologia che voglia proporsi come cammino spirituale ha il compito innanzitutto di custodire e coltivare questa carità: la fede che opera nell’amore e l’amore che si esercita come fede.
Il tentativo di dire una teologia in musica evidenzia ulteriormente un elemento già fondamentale del pensare teologico cioè, la questione “se la continuità logica e temporale e l’intreccio di interessi tipici della riflessione teologica siano in grado di esprimere un’unità non solo scientificamente ma anche spiritualmente coerente: non solo una ricerca ordinata ma appunto un cammino spirituale.” Come vedremo, sul piano di una resa musicale della vita di Gesù, acquisteranno un grande significato non soltanto le singole scelte e i singoli quadri ma anche l’insieme della struttura, l’organizzazione temporale degli eventi musicali, la logica che guida la connessione dei movimenti. La condizione per una teologia come via spirituale è proprio la continuità logico – sistematica dei singoli momenti, al contrario essa sarebbe dispersione di occasioni spirituali. Trasferendo tutto ciò in ambito musicale è possibile comprendere come il primo passo per la comprensione dell’oratorio sia l’analisi della forma generale della composizione.
Analisi della struttura
Il racconto musicale del Vangelo di Cristo
L’opera di Liszt non costituisce il primo tentativo isolato ed inedito di presentare la vita di Gesù Cristo in linguaggio musicale, bensì si inserisce in una profonda tradizione collaudata che annovera, nel suo genere, alcuni tra i massimi capolavori della musica, quali il Messiah di Handel o le “passioni” bachiane. A onor del vero, quando Liszt raccolse l’eredità dei grandi oratorii inglesi e tedeschi del Settecento, il genere si era quasi estinto; il suo tentativo, perciò, conserva anche un certo valore di novità, non in assoluto ma relativamente al suo contesto. Di questo recupero risente anche la forma musicale. Egli non si limita a compiere un’operazione archeologica o di semplice restaurazione, ma in modo assai personale inventa nuovamente l’antico genere.
L’oratorio tradizionale era genericamente giocato sull’alternanza tra sviluppo narrativo e meditazione spirituale, dove l’historicus narrava, in forma di recitativo, gli avvenimenti e introduceva i dialoghi tra i personaggi e questi ultimi, o, ancor più di frequente, la massa corale proponevano in forma di aria o di corale un riflessione religiosa sull’accaduto e sui misteri della fede cristiana. Ad esempio, Bach, nella Passione secondo san Matteo, alterna con sapienza lo svolgimento della vicenda, in piena fedeltà al testo dell’evangelista, a straordinari momenti corali con funzione di eco meditativa su testi poetici e non appartenenti direttamente alla sacra Scrittura.
Liszt, essendosi impegnato come direttore di tale repertorio svariate volte, conosceva in maniera approfondita questo tipico procedimento tradizionale, e nella sua composizione aveva ben compreso la necessità di conservare entrambi gli elementi – narrativo e meditativo – e, parimenti, di esprimerli in forme nuove. Per rendere in maniera sensata la vita di Cristo non si affida tanto ad un narratore e ad un recitativo ma giustappone i movimenti alla maniera di un mosaico, garantendo, però, l’unità della composizione mediante continui richiami tematici. Essi sono fondamentali per cogliere come un tutt’uno la vicenda di Cristo e assicurare, pur attraverso l’impiego di generi musicali assai differenti, una coerenza stilistica efficace. Inoltre, l’assegnazione a distinti movimenti di un materiale melodico comune è un espediente “esegetico” per sottolineare la relazione e la reciproca interpretazione tra gli eventi accomunati sul piano musicale. Allo stesso modo, il dato riflessivo è affidato soprattutto ai testi tratti dalla liturgia e all’invenzione musicale nella sua espressione programmatica.
Abbiamo già accennato al fatto che l’idea dell’oratorio aveva occupato la mente di Liszt per un lungo periodo. Almeno dal 1853 gli sarebbe piaciuto affidare a Georg Herwegh la stesura di un libretto. Nel 1857, quando egli diresse “L’enfance du Christ” di Berlioz a Aachen, emerse nuovamente questa sua intenzione; egli chiese alla contessa di Wittgenstein di preparare una bozza, e i versi sarebbero poi stati composti dal poeta Peter Cornelius. Fu solamente dal 1862 che, a Roma, egli si mise a lavorare seriamente a tale progetto. Alla fine fu egli stesso a compilare il testo in latino, traendolo dalla Bibbia e dai testi della liturgia cattolica, unificando in sé, secondo il progetto romantico, la funzione di poeta e quella di musicista. L’oratorio, in definitiva, risulta strutturato in tre parti fondamentali, le quali, a loro volta, sono composte da vari movimenti. La tripartizione realizza una sintesi unitaria delle forme classiche dell’oratorio, cioè: oratorio di Natale; scene dalla vita pubblica di Gesù; passione e risurrezione. È bene, a questo punto, prendere conoscenza dell’intera struttura del Christus per formarci un’idea complessiva della composizione e delle proporzioni del “libretto”.
I parte – Oratorio di Natale
Introduzione
Pastorale e annuncio degli angeli
Inno “Stabat Mater speciosa”
I pastori al presepe
I tre re magi
II parte – Dopo l’Epifania
Le beatitudini
Pater noster
La fondazione della chiesa
Il miracolo
L’ingresso in Gerusalemme
III parte – Passione e Resurrezione.
“Tristis est anima mea“
“Stabat Mater dolorosa”
Inno pasquale
“Resurrexit”
Funzione unificante e peso teologico del “Rorate coeli”
L’introduzione orchestrale (fino alla battuta 114) è tecnicamente una fuga sul tema del Rorate coeli. Tale genere musicale – la fuga – è, per eccellenza, il genere colto nella musica occidentale e il fatto che Liszt lo impieghi in questa introduzione (e anche, n.b., nel movimento finale sulla risurrezione) non può dipendere da fattori casuali. La fuga implica l’intenzione di coinvolgere in maniera forte il pensiero di chi ascolta e, nel nostro caso, l’oggetto di tale «coinvolgimento meditante» sarebbe appunto Is 45,8 con tutto il carico di significato che gli proviene dall’uso liturgico. Esso costituiva infatti l’Introitus della messa di santa Maria in sabato nel tempo di Avvento.
La melodia proposta dai violini, ripresa dai legni e poi articolata in un progressivo crescendo orchestrale rievoca indubbiamente l’atmosfera d’attesa tipica dell’Avvento, ma non è semplicemente lì che vuole condurci esaurendo così brevemente il suo potenziale comunicativo.
“Rorate coeli desuper et nubes pluant Justum: aperiatur terra et germinet Salvatorem.” Il fatto che tutte le parti dell’oratorio inizino con tale intento programmatico ed in più la chiara inserzione di frammenti del tema, spesso come linee di basso, in numerosi altri movimenti, ci spinge a ritenere che, oltre al valore puramente stilistico – compositivo (ai fini della coerenza musicale costituirebbe una sorta di leitmotiv ispirato!) una così evidente insistenza dipenda dalla volontà di porre tra la vita di Cristo e la rivelazione soprannaturale un legame inscindibile. Perciò, “chiedere” all’inizio di ogni parte dell’oratorio e in ogni momento particolarmente significativo che i cieli si aprano e dall’alto piova il Salvatore, significa dire musicalmente un dato teologico sostanziale e, abbiamo visto precedentemente, criticato in maniera radicale: l’origine divina (soprannaturale) di Cristo e della sua rivelazione del Padre.
Liszt sembra iniziare la sua composizione con la chiara intenzione di mostrare tutti gli strumenti tecnici e stilistici a sua disposizione. Infatti una melodia appartenente al repertorio puramente vocale del gregoriano, privata curiosamente del testo, riproposta nel genere fugato da un’orchestra sinfonica (e non da un coro minimo di voci monastiche) può rappresentare un ottimo esempio della via, tutta personale, adottata dal nostro compositore, di cercare e creare la musica religiosa dell’avvenire.
L’elemento pastorale – popolare
Se la fuga sul Rorate coeli implicava l’impiego di un’armonia modale, tecnicamente possiamo parlare di un Re dorico, il proseguo pastorale del primo movimento è reso in una modalità misolidia, assai più vicina a ciò che l’orecchio moderno coglie come “maggiore”. Il tempo di 12/8, inoltre, è in grado, per così dire, di agganciare ritmicamente gli ascoltatori ad un livello realmente popolare, quasi di danza tradizionale. Poi, con l’intreccio timbrico delle ance, Liszt riesce a rendere quasi fiabesco, certamente accattivante, l’ambiente sonoro. La qualità della musica colpisce per la sua modernità e per il fatto che possiede le caratteristiche descrittive della contemporanea musica per immagini.
Come è accaduto per la prima parte del primo movimento, anche in questa sezione un ascolto non superficiale riesce a riconoscere, seppur in forma notevolmente variata, la linea di un’altra significativa melodia gregoriana, vale a dire la terza antifona delle lodi della Natività del Signore:
Angelus ad pastores ait: annuntio vobis gaudium magnum: quia natus est vobis hodie Salvator mundi, alleluja.
Su questa materia Liszt ci intrattiene con numerose variazioni sul tema fino alla fine del primo movimento. In seguito, esattamente al contrario di quello che ci si aspetterebbe nella logica delle variazioni sul tema, il secondo movimento che narra dell’annuncio degli angeli ai pastori presenta fedelmente l’antifona Angelus in tutto il suo sapore arcaico e religioso, quasi a rivelare il motivo reale della precedente atmosfera distesa e festosa.
Sono convinto che nonostante l’apparente artificiosità dell’espediente compositivo, il risultato ottenuto da Liszt in tutti i passaggi dell’oratorio che intendano essere di carattere spiccatamente popolare, sia altamente efficace, infatti la funzione di mediazione culturale della musica gli permette di far entrare nella narrazione musicale, in un modo più partecipe, l’uditorio che riconosce vicini a sé e alla sua portata contenuti altrimenti difficilmente accattivanti e quindi assimilabili.
Nel quarto movimento, che tratta dei pastori alla grotta, Liszt addirittura ci propone l’imitazione delle zampogne e lascia intendere di voler sviluppare il tema popolare del Quanne nascette Ninne di Alfonso Maria de’ Liguori e recupera, anticipando Bartòk di alcuni anni, materiale non solo melodico ma anche armonico della tradizione popolare, in particolare fa largo impiego di una scala con il quarto grado aumentato e la settima minore, probabilmente di derivazione ungherese (non dimentichiamo che Liszt è nato in Ungheria).
In sintesi, possiamo ritenere, con una certa probabilità, che l’utilizzo di questi mezzi sia finalizzato a dar voce al popolo e, in questo modo, rendere possibile che esso sia presente “attivamente” nella vicenda stessa. Il popolo non come spettatore ma come soggetto era, d’altronde, un’idea che Liszt aveva più volte proposto nei suoi scritti sulla musica e nelle sue lettere. Nel Christus il popolo non entra solo in contatto con la figura di Gesù tramite la compassione o la sola riflessione, ma anche grazie ad alcuni espressioni di tradizione culturale. I pastori che si recano alla mangiatoia per adorare il bambino sono gli uomini e le donne del popolo identificati con la musica popolare natalizia con imitazione delle zampogne. Su tale intuizione, come è ovvio ormai attendersi dal compositore ungherese, prende forma un trattamento musicale delle melodie tradizionali che non è propriamente “popolare” bensì assai raffinato. Esso non risulta, tuttavia, avulso dalla realtà “popolare” proprio in virtù di quanto detto circa il procedimento compositivo.
Un’inclusione mariana?
Abbiamo accennato in vario modo, nel capitolo precedente, alla portata teologica di Maria nel contesto della critica razionalistica al soprannaturale. Tale progressivo approfondimento si cristallizzò nella proclamazione del dogma dell’Immacolata concezione l’8 dicembre 1854 anche per un forte e personale impegno di papa Pio IX. Ora, riteniamo non casuale la scelta operata da Liszt di porre quasi all’inizio e alla fine dell’oratorio, in posizione simmetrica, la sequenza dello Stabat Mater, nelle sue due varianti testuali, una spiccatamente “natalizia” (Stabat Mater speciosa) l’altra tipicamente “quaresimale” (Stabat Mater dolorosa).
Poiché l’espressione artistico – spirituale dei contenuti teologici della fede ha rilievo solamente in un quadro logico, è possibile affermare che questa sorta di inclusione contemplativa della Madre del Signore conferisca a tutta la vita di Gesù il connotato di rivelazione dall’alto, contro qualsiasi tentativo, emergente all’epoca, di comprendere il Figlio di Dio come semplice maestro di morale o perfetto esempio di esplicazione dell’universale sentimento religioso umano.
Dal punto di vista della struttura non ci sono dubbi: tutto il ministero pubblico di Gesù è posto sotto il segno dello Stabat Mater. Un supporto a questa ipotesi deriva da almeno due fattori. Il primo è quello già analizzato dell’impiego della connessione tematica (o del leitmotiv ispirato) del Rorate coeli, il secondo è il peso musicale attribuito da Liszt alla resa musicale dei due testi. Da una semplice considerazione dell’aspetto quantitativo – temporale è possibile constatare come le sezioni dello Stabat Mater occupino uno spazio notevole, specialmente la seconda che è un vero e proprio monumento musicale praticamente autosufficiente. Sarebbe molto interessante confrontare la resa musicale dei testi nei due diversi movimenti, tenendo presente che il materiale melodico è preso dalla linea classica, tutt’oggi cantata, e trattato nel primo caso come un corale e nel secondo, con l’utilizzo di svariate tecniche, guidato quasi in forma sonata, con i due temi sviluppati e ripresi secondo la tradizione ma con evidenti novità armoniche.
Un ultimo elemento che qui possiamo analizzare, il quale può apparire superficiale o peggio casuale, mentre in realtà rivela necessariamente un’intenzione sia musicale che espressiva, è costituito dal fatto che il punto di maggiore intensità e contemporaneamente di maggiore altezza (una sorta di vetta melodica a segnalare il punto verso cui tutto è mosso) corrisponde all’ultima comparsa all’interno delle strofe della sequenza della parola Christus. Probabilmente Liszt ci dà un indizio che dal punto di vista acustico e sonoro non lascia dubbi (il soprano solo e tutti i soprano del coro raggiungono in ff il Sib sopra il rigo!), cioè, che lo Stabat Mater, oltre a commuovere per la sua bellezza, va colto e compreso proprio in relazione alla vita e alla croce di Cristo.
Il ministero pubblico: Cristo maestro
La parte centrale dell’oratorio intende rappresentare la vita di Gesù “nach Epiphania”, cioè il ministero pubblico. Qui la necessità di operare scelte si fa urgente al massimo grado, data la varietà di episodi narrati dagli evangelisti. Cosa scegliere fra tutte le possibili alternative? Da quale punto di vista presentare la vita pubblica di Gesù? Liszt che, come detto precedentemente, si è preso la responsabilità in prima persona della stesura del libretto, attinge due momenti particolari dal discorso della montagna di Matteo. Evidentemente, secondo la sua intenzione (teologica?) l’insegnamento delle Beatitudini e del Padre nostro forniscono una sufficiente sintesi di tutto il ministero di Gesù, d’altronde, tale intuizione non si discosta, probabilmente, di molto dalla prassi catechistica del tempo.
Gesù è maestro e rivela il senso più profondo della realtà ad un livello che la ragione ed il buon senso umano non possono afferrare e in questo suo rivelare e leggere la realtà apre agli uomini la speranza e la possibilità di un futuro diverso, di un “avvenire” legato a Dio e al suo Regno. La tecnica adoperata nel musicare il testo delle beatitudini appare assai consono al genere letterario definibile «insegnamento», infatti, è tutto costruito sul dialogo tra Gesù (baritono), che propone solisticamente la beatitudine, e il popolo (coro) che ripete l’insegnamento del maestro armonizzato a quattro voci. Questo andamento rimanda chiaramente al metodo domanda – risposta dei catechismi circolanti all’epoca.
Il Padre nostro, su intonazione gregoriana, è uno splendido modello di polifonia palestriniana. Interamente a cappella, tranne alcune sottolineature organistiche chiaramente di sostegno, rappresenta l’esempio più limpido all’interno di tutto l’oratorio dell’aspirazione di riforma ceciliana. L’unica eccezione, che non poteva mancare, è costituita dal passaggio sulle parole “sicut in coelo et in terra”, che riprende chiaramente il tema principale dello Stabat Mater speciosa. Dove compare la relazione «cielo – terra» il riferimento a Maria e alla difesa del soprannaturale viene ripresentato ponendo un accento armonico in netta discontinuità con il tessuto polifonico del Padre nostro.
Questi due movimenti all’interno dell’economia dell’intero oratorio contribuiscono a delineare la figura di Gesù Cristo come maestro di morale e di preghiera e chiedono da parte dell’uditorio di saper porre attenzione alle parole del Signore; forse, è anche per questo che il peso dell’orchestra è assai alleggerito, quasi nullo, se non fosse per l’impiego dell’organo, in modo tale da porre le parole di Cristo in assoluto primo piano, secondo anche le intenzioni e le istanze di riforma della musica liturgica.
Cristologia ed ecclesiologia
Uno sguardo globale alla struttura dell’opera permette di accorgersi subito che al cuore dell’oratorio si trovano due movimenti, strettamente correlati l’uno all’altro, i quali esprimono determinati contenuti sulla chiesa e sul suo rapporto con Cristo e con la storia: la fondazione della chiesa e il miracolo della tempesta sedata. Nella bufera ecclesiale e politica del Risorgimento e del romanticismo più in generale, come poter dire qualcosa sulla natura e sull’origine della chiesa, sulle motivazioni del primato del papa? Quale è la radice di tutto ciò? Liszt opera la scelta di musicare Matteo 16,18 per affermare la derivazione cristologica della chiesa e aggiunge un inno papale intessuto su Giovanni 21 per specificare, all’interno della fondazione ecclesiologica, il preciso ruolo del pontefice. Naturalmente il Tu es Petrus è proclamato da sole voci maschili.
Come valutare tutto ciò in relazione al fatto che precede solamente di quattro anni la definizione del dogma del primato e dell’infallibilità? Come un caso? Come una fissa papista del compositore?
Alla fondazione cristologica della chiesa, lungi da qualsiasi spiegazione puramente sociologica e razionale, segue la rappresentazione dell’unico miracolo scelto tra tutti gli altri: la tempesta sedata! Probabilmente Liszt era ben consapevole del senso ecclesiologico di tale racconto di miracolo, infatti lo sceglie e lo inserisce al centro di tutta la struttura della sua opera. Questo movimento è un capolavoro di musica a programma dove i versetti biblici (Mt 8, 24-26) servono a guidare la composizione dei vari momenti: dall’avvicinarsi della tempesta al suo scoppio fragoroso, dalla paura degli apostoli alla calma e alla serenità dovute alla parola del Signore che fa tacere i flutti del mare e rimprovera i suoi per la loro mancanza di fede.
La scelta di musicare queste scene va colta in relazione alla consapevolezza di una chiesa che si sentiva minacciata alle porte ma anche al rimprovero, presumibilmente condiviso da Liszt, circa la carenza di fede e speranza nell’aiuto del Signore.
Un accento marcato (e personale) sull’umanità di Cristo
Dopo il grandioso ingresso a Gerusalemme, che celebra con tutti i mezzi espressivi possibili “Colui che viene nel nome del Signore, il Re d’Israele”, la scena del Getsemani appare ancora più marcatamente finalizzata a mostrare la sofferenza interiore, profondamente umana, di Cristo. Grazie al procedere modulante e all’impiego di un denso cromatismo pare possibile intravedere in filigrana una sorta di immedesimazione del compositore. In sostanza, Cristo (ovviamente un baritono), esprime la sua agonia su di un materiale sonoro nuovo in relazione al contesto fin qui presentato, materiale tipicamente utilizzato da Liszt in altre composizioni di genere differente, più intimistiche, spesso per solo pianoforte.
L’intreccio tra melodia e sostegno armonico è tutto giocato sull’intervallo di semitono ascendente, quasi a creare un gioco continuo di risoluzioni funzionali di sensibile su ogni grado della scala tonale. Questo espediente carica la narrazione musicale della passione al Getsemani di una tensione inedita e conferisce a questo movimento la complessità e la modernità tipica di una musica che sta già oltrepassando i confini del romanticismo, per giungere a nuove e non ancora consolidate forme espressive. Si tratta certamente di un movimento, potremmo dire, di “ricerca sonora”, dove il testo è realmente in grado di guidare la percezione emotiva dell’evento e allo stesso tempo riceve luce dall’armonia e dalla timbrica impiegate.
Sulla parola “Pater” Liszt opera un improvviso rischiaramento dell’atmosfera, quasi a rievocare una presenza nuovamente sentita intimamente affidabile, e conduce la melodia ad un picco sul “sed quod Tu” per esprimere musicalmente la profondità della relazione tra Padre e Figlio e sottolineare il peso enorme di quel “ma” pronunciato nella sofferenza e nella totale ricettività della volontà del Padre da Cristo. Come accennavo in precedenza, in quel “ma” trovano senso e giustificazione tutte le sofferenze patite per innalzare e redimere l’umanità, in qualche modo vissute personalmente ,o ritenute tali, dallo stesso Liszt. E’ così che si spiega anche la discontinuità di tale movimento rispetto a tutto il resto. Inoltre, dato che l’espressione popolare più propria della passione la troviamo, immediatamente di seguito, nello Stabat Mater dolorosa, ci pare lecito ritenere che esattamente nel Tristis est anima mea usque ad mortem compare in maniera più spiccata la personalità del compositore, quasi nella forma di uno spazio personale e privilegiato di condivisione.
Il Cristo risorto
Liszt affida l’annuncio della risurrezione alla tradizione, al canto gregoriano, ad un esile coro femminile o di voci bianche, all’armonium, al clarinetto, al corno inglese, al flauto, al testo straordinariamente efficace dell’inno pasquale O filii et filiae. Si tratta del movimento più breve eppure riesce ad annunciare il contenuto teologico più importante della fede cristiana con una nobiltà e una grazia fuori dal comune. Liszt colora appena la linea melodica arcaica con intervalli di quarte e terze. Usa una mano talmente leggera che ben si comprende la paura di sprecare e sovraccaricare l’espressione sobria e spirituale del mistero della risurrezione veicolato dall’antica melodia gregoriana.
Un annuncio sottovoce e proveniente da un tempo lontano: ecco il rispetto per il mistero di Cristo risorto, mistero che non può essere colto senza pudore perché verità non appariscente. Questo stile di narrare la risurrezione potrebbe essere di grande utilità anche oggi, proprio ai nostri giorni dove appare evidente la scomparsa di un pudore anche nel pensiero, nella spiritualità e nella relazione con l’Assoluto. Si tratta dello stesso pudore e della stessa nobiltà dei racconti della risurrezione degli evangelisti e del loro modo di chiamare ad una risposta di fede tutti gli uomini. La risurrezione in musica «secondo Liszt» è qualcosa che va detto nella consapevolezza di essere nella posizione di chi sta di fronte ad un mistero che oltrepassa infinitamente l’uomo e contemporaneamente lo chiama a parteciparvi con intensità, cioè con pudore, nobiltà e grazia.
L’ultimo movimento è certamente lo sviluppo conseguente dell’annuncio della Pasqua di Cristo ma anche la sintesi di tutto l’oratorio, in quanto, in vari modi e a vari livelli di percezione, numeroso materiale, esposto in precedenza, trova qui la sua definitiva collocazione e la realizzazione del suo ultimo significato. Ciò avviene, abbiamo detto, a vari livelli di profondità, sia dal punto di vista compositivo che di riflessione. Come accennato in apertura di capitolo, quest’ultimo movimento è composto a mo’ di fuga e questo dato rispetta sia la grande tradizione dei compositori classici sia la simmetria strutturale con la fuga introduttiva sul Rorate coeli.
Scavando ulteriormente, però, si nota che il soggetto della fuga in Mi maggiore, sulle parole Christus vincit, Christus regnat, Christus imperat…, è una progressione ascendente di intervalli di quinta giusta che nella risposta tonale diviene quarta. Dopo più di due ore di musica possiamo immaginare che Liszt non scelga in maniera arbitraria il soggetto conclusivo della sua opera. Così analizzando tutti i temi esposti in precedenza ci accorgiamo che il salto ascendente di quinta è contenuto sia nel «onnipresente» Rorate coeli che nel Angelus in maniera evidente perché in posizione iniziale e compare, anche, come intervallo significativo in quasi tutti i rimanenti temi. In aggiunta, all’interno del sistema dell’esacordo gregoriano, l’intervallo di quinta è il più caratteristico perciò la composizione della fuga su tale soggetto costituisce una sorta di sintesi ultima, piuttosto concettuale, di quanto esposto in precedenza.
La fuga è introdotta da una breve sezione modellata sulle parole Resurrexit tertia die con andamento armonico crescente e disposto in una sorta di progressione modulante a tonalità lontane che garantisce l’effetto di un qualcosa di non aspettato e controllabile in anticipo da parte dell’uditore. Un dato rilevante a sostegno di quanto ipotizzato in precedenza è la riesposizione della testa del tema (una quinta giusta ascendente con una semplice appoggiatura inferiore) del Rorate coeli, ai violoncelli, viole, fagotto e clarinetto alle battute 4-5-6; 8-9-10; 12-13-14 e 16-17-18 di questo movimento conclusivo.
Nuovamente questa sottolineatura deve far pensare che la risurrezione non è opera della ragione, o peggio, parto della fantasia dell’uomo, ma è qualcosa che è comprensibile solo in relazione alla fede in Dio che ha scelto di rivelare se stesso in questo modo. Per questo Liszt ritiene possibile, allora, aprire tutta la gioia e la maestosità di cui la sua musica è capace, con il pieno orchestrale, con la conduzione a quattro parti di una fuga rigorosa, con il suono delle campane che chiamano il popolo, con l’arpa, con i solisti, con squilli di ottoni, con timpani, cassa e piatti, con la definitiva ripresa del Rorate coeli sui solenni Amen finali.
La scelta dei testi musicati
In questo paragrafo daremo uno sguardo sintetico e assai rapido circa le scelte testuali e l’utilizzo e la funzione delle due fonti principali: la Sacra Scrittura e la liturgia. Il riferimento principale è al testo completo del libretto dell’oratorio riportato in appendice.
La Sacra Scrittura
Nei capitoli precedenti ci siamo soffermati a lungo sulla relazione Dio – popolo e ci siamo domandati se fosse possibile stabilire la portata della voce di Dio e della voce del popolo nell’oratorio. Giunti a questo punto dell’analisi, pensiamo sia possibile rintracciare questo dialogo a due voci, più o meno nascosto, anche sulla base delle scelte testuali operate da Liszt. La parola di Dio, in particolare tratta dal vangelo di Matteo (come era lecito attendersi) è impiegata abbondantemente e ciò contribuisce a non distorcere in maniera eccessiva l’immagine musicale di Cristo che nello sviluppo della composizione viene formata, anzi, in un’accurata adesione ai testi evangelici; la figura di Cristo rimane aperta all’interpretazione credente e non limitata da un’eventuale rappresentazione letteraria soggetta ad ideologia.
Proprio tale rispetto del testo è la condizione perché la voce di Dio in esso contenuta, o per esso comunicata, non perda la sua verità nemmeno a distanza di centoquarant’anni dalla composizione dell’oratorio. Liszt ha inserito come spina dorsale del suo lavoro i testi biblici e ciò conferisce al suo sforzo la capacità di essere attuale, di resistere al cambiamento delle mode, degli stili e soprattutto dellù
e culture, di svilupparsi con i mutamenti «dell’avvenire» e di permettere alla voce di Dio di continuare a risuonare in esso. Non si tratta di una sorta di magia che ha a che fare con l’uscita dal tempo e dalle vicende storiche, quanto della possibilità di custodire e tramandare le parole del Signore in un contenitore sonoro.
La liturgia
Gli inni, le sequenze, le antifone musicate o arrangiate nuovamente costituiscono la degna controparte ai testi della Scrittura. In esse si realizza la possibilità di rendere una risposta adeguata alla «voce di Dio» che conduce, e in un certo senso crea, l’evolversi dell’esistenza di Cristo, dall’annunciazione alla risurrezione. Tale tipo di testi permette a chi ascolta, al popolo, di impossessarsi degli strumenti linguistici adeguati per entrare in dialogo con la rivelazione (soprannaturale!) di Dio. La «voce del popolo» è prima di tutto occasione per l’uditore di inserirsi in un percorso di risposta di fede che lo Spirito, presente nella vita della chiesa, ha certamente donato e consegnato alla tradizione. Alla voce di Dio non si risponde come se si fosse i primi e la scelta di utilizzare testi condivisi della tradizione va chiaramente nella linea di un intento pedagogico. È solo all’interno di tale risposta condivisa e comune a tutto il popolo che il singolo può cercare la propria via personale e mai fuori da essa.
Le scelte musicali
Il rapporto musica – testo può essere letto anch’esso, alla luce di quanto andiamo sostenendo, secondo il modello del dialogo tra Dio e popolo.
Musica e voce di Dio: la Bibbia come “programma” musicale
Se da un lato la Parola di Dio è presente nell’oratorio come testo musicato, non possiamo trascurarne la funzione di programma musicale. Questo procedimento compositivo abbiamo visto essere un’intuizione personale di Liszt. Essa è finalizzata ad una maggiore appropriazione dei contenuti espressi, contrariamente alla tendenza ad inseguire l’ideale di una musica «pura» incapace di dire concetti precisi e perciò eccelsa per la possibilità di esprimere l’inesprimibile.
Numerosissimi sono i casi di notazioni di versetti biblici direttamente sulla partitura ad indicare cosa la musica, in questo caso «sostituta voce di Dio», intendesse esprimere (cfr. nell’appendice tutti i testi riportati come Motto). Ovviamente rispetto alla parola della Bibbia questa parola detta in forma musicale appare meno chiaramente e in vesti assai più celate, ma tutto ciò non toglie che, dal punto di vista dell’intenzione teologica del compositore, questo espediente costituisca un vero e proprio tentativo, un rischio audace, di «incarnare» il Verbo in forma musicale.
Musica e voce del popolo: risonanze tradizionali e funzione anagogica
Già abbiamo disseminato qua e là, nel corso della trattazione, alcuni elementi riguardanti tale questione, quindi sintetizziamo tale dato nell’idea che se l’intenzione artistica è, anche, quella di fornire la possibilità di una dialogo tra Dio e popolo, il mezzo musicale più adatto per accompagnare il popolo verso Dio è quello di afferrare l’uditorio a livello di popolarità di temi e armonie, e, tramite esse, avvolgere e coinvolgere chi ascolta dentro la vicenda di Cristo.
Conclusioni
L’idea di porre in dialogo musica e teologia non è una “scoperta” recente, appartenente in maniera esclusiva ai nostri tempi. Potremmo dire, anzi, che si tratta di una delle relazioni “interdisciplinari” più antiche e, da sempre, costituisce uno degli snodi centrali delle culture tradizionali. Tentare un’esplorazione musicale del mondo di Dio e vedere se, dove e come, possa, uno sguardo di fede, guidare la composizione di musica è un itinerario che ha affascinato molti artisti e pensatori. Sono numerosissimi gli studi che si occupano delle articolazioni esistenti tra rito e musica, tra esperienza “mistica” e ritmo, sia nell’ambito dell’antropologia culturale che in quello, più rigorosamente estetico, della storia della musica.
La relazione tra musica e, per così dire, “ambiente divino” è percorribile in due sensi opposti e complementari. Si può andare verso la musica con strumenti teologici: ciò rende possibile intuire qualche elemento di una composizione, in modo particolare se di carattere religioso (ma non solo!), che allo sguardo della disciplina storica o dell’estetica musicale non sempre è dato afferrare; è possibile anche procedere, questa è l’altra direzione, verso Dio con mezzi musicali e arricchire la propria capacità di “dire” Dio con l’apporto di un linguaggio atipico e, per questo, insostituibile, poiché in grado di apportare un contributo proprio, altrimenti non esprimibile in altra via.
Il tentativo di percorre i sentieri musicali presenti nel Christus di Liszt si è mostrato interessante e fruttuoso, innanzitutto, per la possibilità di vedere come, propriamente dal punto di vista tecnico, possa essere tradotta, in linguaggio musicale, una determinata teologia, con tutto il sistema complesso di influssi e relazioni dovuti sia all’ambiente culturale, sia alla personalità propria dell’autore, necessariamente connessi l’uno all’altra. In particolare, dal punto di vista della strutturazione dell’oratorio, è emerso, in maniera evidente, il ruolo insostituibile di un pensiero in grado di sostenere una connessione di momenti musicali, di per sé indipendenti, e, all’interno di tale organizzazione temporale, porre accenti più o meno marcati sui diversi aspetti della persona di Cristo.
Così, alla scuola della musica e dei grandi compositori, possiamo apprendere che raccontare la vita di Cristo non consiste nello sforzo di andare oltre ad ogni aspetto materiale e storico per giungere, in modo neutrale, alla purezza dell’idea, anzi, proprio nel legno degli strumenti musicali, ognuno con la sua estensione e quindi con il suo limite, proprio nell’esecuzione mai meccanica e identica a se stessa della medesima partitura, proprio nelle scelte compositive ed esecutive in continuità o discontinuità rispetto allo stile in voga, quindi legate inevitabilmente ad un ben preciso contesto temporale, proprio in tutto ciò che è assolutamente contingente e che dipende da realizzazioni concrete, è possibile incontrare colui che non muore e si rinnova perché ha scelto, per così dire, di lasciarsi interpretare per continuare a parlare e comunicare la sua parola eterna.
Un racconto in forma musicale educa coloro che ascoltano, nel lasciarsi coinvolgere, sotto più aspetti: dalle emozioni suscitate alle reazioni richieste, dalle parole pronunciate alla presunta ricezione della conformità tra testo ed espressione musicale. L’oratorio di Liszt è tutto proiettato verso un interlocutore “necessario” per far sì che esista l’evento musicale e, perciò, si comprende molto bene come il primo interlocutore invitato all’ascolto sia il compositore stesso. La musica può educare colui che ascolta se, in qualche misura, è riuscita ad educare chi l’ha composta. È anche per questo, che l’attività stessa del comporre può dire qualcosa sulle esigenze profonde dell’uomo, creato ad immagine e somiglianza di Dio. Un racconto in forma musicale può essere in grado di “dire” cose importanti circa il modo di accogliere il fatto stesso narrato, in questo caso, l’evento della rivelazione di Dio Padre in Cristo, soprattutto, per quanto riguarda le condizioni di un ascolto fruttuoso. L’immagine sonora, infatti, attira a sé ma non pretende di essere autosufficiente, possiede un grande potere attrattivo ma non scende in profondità, almeno, tanto quanto la parola stessa è in grado di fare.
L’idea sulla musica, che risulta maggiormente diffusa e condivisa, è, senza dubbio, quella che la considera un fenomeno principalmente rivolto alle dimensioni spirituali dell’uomo, in quanto quasi immateriale e invisibile. Di certo, tale concezione si inserisce nel grande filone del romanticismo o, addirittura, nelle teorie pitagoriche e platoniche, dove l’intelletto, la ragione, l’anima, il cuore, sono le facoltà che rendono l’uomo degno di essere considerato tale. Ma, per come è pensato e realizzato dal punto di vista dell’effetto acustico, il Christus di Liszt e, più in generale, tutta la musica, ci costringono ad integrare questa visione con l’aspetto più “fisico” della musica. È nella materialità della massa sonora o, a volte, nei passaggi scarni e quasi scarnificati, che passa la narrazione della vicenda di Cristo. E’ in questa “carne” musicale che troviamo il luogo dove incontrare la sua realtà. Un modo più realistico, infatti, di concepire la musica, ci permette di apprezzarla veramente come strumento in grado di produrre un’efficace mediazione “spirituale”.
La musica, non quella in generale, che non esiste, ma quella composta, pensata, cancellata, rifatta, rivista, mostra come l’esito finale di tutto il processo di composizione, delle innumerevoli varianti che si potevano utilizzare, sia, in realtà, una sorta di “distillato” di scelte. Tutta la musica scritta, ma anche quella improvvisata, è frutto di un discernimento sia stilistico che contenutistico, perciò, l’eventualità di esprimere una teologia in musica obbliga ancor più strettamente l’autore a concentrare il materiale, ad operare scelte drastiche, a sforzarsi di non rinunciare ad esprimere il centro, o i punti centrali della sua narrazione, ed, inoltre, a pensarli all’interno di un medesimo quadro logico nei contenuti e coerente nello stile.
Se riteniamo possibile affermare che il valore più profondo della musica è intuibile grazie alla luce della fede nel suo svolgersi teologico, è possibile, d’altro canto, pensare fondatamente che la musica possa accompagnare l’uomo nella progressiva comprensione del mistero di Dio, aprendone nuove possibili strade e sentieri. L’augurio è che tra musica e teologia torni a correre un rapporto fecondo, in grado di aiutare entrambe ad uscire dalle “secche” culturali che oggi paiono tenerle piuttosto frenate, nella vicendevole interpretazione e nella creazione di nuovi linguaggi, capaci di parlare, ancora oggi, di colui che è principio della nostra fede: Cristo.
Pingback: Musica e Teologia: il caso Liszt. | Alessandro Pivetti